Quel martedi grasso… quando invece di andare a scuola per la festa in maschera, siamo andati in ospedale a incontrare l’ematologo che ci aveva consigliato il pediatra la sera prima. I vestiti da Harry Potter pronti in macchina, per correre a scuola non appena finito in ospedale. Non immaginavamo ancora, né io né mio figlio, che non solo quel giorno non ci sarebbe stata nessuna festa per lui, ma che non saremmo tornati a casa prima di un mese.
La nostra vita è cambiata di colpo il giorno dopo, mercoledì delle ceneri, inizio della Quaresima e inizio per un nuovo viaggio per noi. La diagnosi è arrivata assordante come un tuono, inesorabile come una sentenza, violenta come una tegola che d’improvviso ti colpisce in testa e ti stordisce. Io e il papà siamo rimasti chiusi in una stanza insieme al dottore, conosciuto solo il giorno prima, per tanto tanto tempo, ma non ricordo assolutamente nulla di tutto quanto è stato detto o fatto dopo la comunicazione della diagnosi. Avevo solo una parola che continuava a tuonare nella mia testa: leucemia. E risuonava come un’eco ancora e ancora, rendendomi cieca, sorda e muta. Mentre il papà formulava domande a raffica, tutto il mondo intorno a me continuava a crollare, qualsiasi appiglio cercassi nella vita condotta fino a quel momento si frantumava nel momento stesso in cui in esso cercavo conforto.
Un unico pensiero… Cosa dico a mio figlio? Come si fa a dire a un bambino di neanche 10 anni che non tornerà a scuola, né a pallavolo quando, fino a quel momento, la scuola e lo sport hanno costituito tutta la sua vita? Come si fa a spiegare a un bambino che dovrà rimanere in ospedale a lungo, quando il solo perdere la festa di Carnevale il giorno prima aveva costituito per lui una tragedia?
In ospedale, in quel reparto, mi sentivo una profuga in terra straniera. Non avevo più niente, perché niente aveva più importanza, soprattutto, mi mancavano le parole per convincere un bambino pieno di vitalità, proprio sul nascere della bella stagione, che rimanere chiusi lì dentro era la cosa migliore, sebbene fin da piccolo fosse stato sempre spronato a stare all’aria aperta.
Mio figlio ha iniziato presto con le sue domande da bambino, prima fra tutte “Quando torniamo a casa?”, trasformando il costante dolore al cuore in una fitta insopportabile, di quelle che ti fanno venire voglia di urlare. Abbastanza grande da capire che qualcosa gli stava portando via la sua vita da bambino, ma non abbastanza da poter comprendere fino in fondo quel che gli stava capitando. Non era possibile chiedergli di rassegnarsi e a poco a poco ha iniziato a sviluppare rabbia, rabbia, rabbia: non mi viene in mente un’altra parola per descrivere quel che vedevo nelle sue reazioni. Una rabbia continua, crescente, incontrollabile, verso chiunque gli capitasse a tiro: i dottori, suoi carcerieri, le infermiere, secondine di quella prigione in cui si sentiva intrappolato, la sua mamma, che invece di liberarlo da tutto questo si rendeva complice di qualsiasi sconosciuto si presentasse con visite, analisi ed esami più o meno invasivi.
Non era mai stato un bambino eccessivamente capriccioso, ma in pochissimi giorni aveva sviluppato una rabbia cieca e violenta, che manifestava a ogni occasione, ignorando del tutto l’educazione ricevuta fino a quel momento. Avevo conosciuto la Kids Kicking Cancer durante una festa per bambini organizzata per l’Epifania dall’azienda in cui lavoro. La festa era stata l’occasione per la presentazione di questa nuova Associazione, nata per sostenere e supportare i bambini ricoverati nei reparti di oncoematologia pediatrica. Ricordo di aver subito pensato che fosse una splendida iniziativa, invidiando un po’ i volontari che potevano prestare la loro attività per questa causa. L’Associazione ricerca volontari fra chiunque abbia studiato un’arte marziale, in quanto, utilizzando le tecniche proprie di queste discipline, aiuta i bambini ad affrontare meglio la malattia e il dolore.
Nel presentare l’associazione era stata organizzata per tutti i bambini presenti alla festa una dimostrazione e una lezione collettiva dedicata ai bambini, alla quale aveva partecipato anche mio figlio. Ho incontrato di nuovo i volontari della KKC uno o due anni dopo, direttamente nell’ospedale pediatrico, nel reparto di oncoematologia, dove ora mio figlio era diventato uno dei piccoli pazienti.
Appena ho visto i ragazzi, li ho riconosciuti subito e ho chiesto loro di fare un salto a conoscere mio figlio. Arrivò una ragazza, non ricordo più quale arte marziale insegnasse, ma gli ha fatto una lunga lezione di tecniche di respirazione e rilassamento. L’effetto fu immediato: mio figlio aveva ritrovato la sua serenità… seppur per poco!
Col passare dei giorni, la rabbia cresceva e la frustrazione che mio figlio provava per l’impossibilità di avere il controllo su quanto gli stesse capitando stava prendendo il sopravvento, portandolo a rifiutare tutto quanto potesse rifiutare, prima fra tutte ogni interazione con altre persone o collaborazione con esse, che fossero altri bambini ricoverati, volontari o assistenti ludiche.
Il giorno in cui ho visto di nuovo i volontari, sono corsa subito a chiamarli. Ho incrociato lo sguardo di uno di loro, Dino Erez. Avvicinandomi, gli ho chiesto di passare e provare a incontrare un bambino che lo avrebbe sicuramente respinto. Più della metà del volto era coperto dalla mascherina indossata per proteggere i piccoli pazienti da possibili contagi portati da chi arriva da quel mondo esterno che a loro è vietato, ma dai suoi occhi ho capito che mi aveva sorriso e che aveva capito benissimo la situazione.
Arrivato in stanza ha trovato un bambino ostile, che evitava persino di mostrare i suoi occhi e che, probabilmente, per educazione o per caso non gli ha urlato contro. Io sono uscita per evitare che mi chiedesse di mandare via questo nuovo intruso che voleva a tutti i costi coinvolgerlo in qualcosa. Non so cosa sia successo, ma Dino ha trovato il modo di aprire un varco in mio figlio, il quale, a poco a poco, lo ha lasciato avvicinare. Al termine della lezione, sorrideva di nuovo e ha persino accettato di fare una foto con il suo maestro. Dino è tornato ogni settimana in ospedale e, una volta dimessi da quel primo ricovero, abbiamo chiesto all’Associazione di poter continuare le lezioni a casa, visto che l’intera vita di mio figlio si sarebbe svolta di lì ai prossimi mesi esclusivamente a casa o in ospedale, isolato da chiunque per evitare rischi di contagio.
Ovviamente, anche a casa la rabbia e la frustrazione non erano migliorate, anzi, la rabbia era cresciuta ulteriormente non appena realizzato che il rientro non aveva portato però a un ritorno alla vita normale, come in cuor suo mio figlio sperava. Proteggeva quindi la sua minuscola quotidianità con una gelosia quasi ossessiva, al punto che un semplice programma tv costituiva per lui un appuntamento imperdibile, da non mancare assolutamente. Qualsiasi cambiamento nelle sue piccoli abitudini costituiva motivo di disperazione e pretesto di sfogo.La prima lezione a casa ha rappresentato per Dino una nuova sfida, perché ha trovato di nuovo un bambino ostile, esattamente come la prima volta in ospedale. Mio figlio si è fatto trovare dentro il letto, con il volto nascosto sotto le coperte. Soltanto Dino, con la sua innata pazienza, le sue spiccate doti empatiche e le sue capacità di maestro d’arte marziale poteva essere in grado di riaprire un canale di comunicazione con mio figlio ed entrare in contatto con lui.
Dino, attraverso l’associazione KKC e con le sue lezioni, ha seguito mio figlio durante gli alti e i molti bassi di questa avventura, che ci ha portato a conoscere un mondo di cui, fino a quel momento, non sapevamo nulla.
Lo ha seguito con le lezioni a casa, durante i nuovi ricoveri che ci hanno visti costretti in ospedale in modo quasi ininterrotto per un’intera estate; è passato nella stanza in cui siamo stati isolati per più di un mese in occasione del trapianto, dove è potuto entrare soltanto con i dovuti permessi e, soprattutto, accorgimenti: immancabile mascherina e mani disinfettate, camice a copertura degli abiti, cuffia a copertura della testa, soprascarpe a copertura delle scarpe e lui sempre attento di essere in perfetta salute.
Sono proprio tutte queste accortezze che Dino ha sempre avuto a ogni visita, sia a casa che in ospedale, ad avermi fatto fidare di lui. Oltre al fatto di essere l’unico a riuscire ad avvicinare mio figlio e ad aprire ogni volta una breccia in quel muro che alzava imperterrito fra sé e gli altri. Un’impresa in cui non hanno avuto alcun successo psicologi e psicologhe.
Successivamente al trapianto, avendo oramai imparato tutte le tecniche di base, Dino ha proposto a mio figlio di iniziare a studiare le cosiddette “forme”, una serie di movimenti di allenamento del taekwondo, l’arte marziale insegnata da Dino, allo scopo di svolgere un esame per prendere la cintura verde. Lui ha accettato, come sempre accadeva con le proposte che arrivavano da Dino. Dino si è poi organizzato affinché l’esame per la cintura verde fosse svolto al Day Hospital in occasione della visita a Roma di Rabbi G., fondatore dell’associazione e ideatore del metodo KKC utilizzato per i piccoli pazienti. Mio figlio, con indosso karategi, calzini e mascherina, di fronte a bambini, genitori, volontari e Rabbi G., ha eseguito le prime tre forme del taekwondo, sotto i miei occhi increduli e commossi, ammutolita di fronte a quel bambino che volteggiava davanti a tutti, ora molto più maturo di quel bambino che era entrato in ospedale poco più di un anno prima. Ha ricevuto la cintura verde direttamente da Rabbi G., sempre grazie a Dino, il quale non ha mai smesso di porre attenzione anche ai più piccoli dettagli.
Posso confermare, ora con esperienza diretta, che l’iniziativa della KKC è brillante e preziosa per i piccoli pazienti. L’incontro con i volontari, se bravi e ben preparati, come successo a noi, può essere davvero di grande aiuto sia per i ragazzi che, seppur indirettamente, per i loro genitori. Siamo stati fortunati a incontrare Dino. Mio figlio e tanti altri ragazzi che abbiamo conosciuto in ospedale hanno beneficiato della sua dedizione. Per essere così carismatici con ragazzi di difficile approccio come sono i ragazzi ricoverati in un reparto come il nostro, bisogna credere davvero in quel che si fa.
Una volta ho chiesto a mio figlio cosa gli piacesse di quelle lezioni. Mi ha risposto che quando Dino lo fa sdraiare e lo aiuta a concentrarsi, gli spiega come respirare, gli indica cosa pensare, lui si sente rilassato, sereno e con la mente lo porta a pensare a tante cose belle.
È capitato nel tempo che qualcuno gli abbia detto che è bravo con la respirazione e mio figlio tutto orgoglioso ha risposto “L’ho imparata con il taekwondo!”.
Da parte mia posso affermare che in qualsiasi esperienza la vita ti chiama a vivere, la vera differenza la fanno esclusivamente le persone che incontri sul tuo cammino.